Il punk da tendenza sovversiva a moda resiliente

Mi hanno chiesto di scrivere questo pezzo sul punk e molto probabilmente la cosa più punk da fare sarebbe di non parlarne affatto. Parlare di altro. Tipo, chessò, di Maria Antonietta.

Ma anche questa è una trappola mentale: a pensarci bene Maria Antonietta era l’Asburgo più punk del Settecento, l’ha già dimostrato Sofia Coppola nel suo film del 2006. Cosa c’è di più punk di farsi tagliare la testa semplicemente per aver suggerito di sostituire il pane con le brioche? Lasciate stare che non l’abbia mai detto, e probabilmente era solo una congiura dei nutrizionisti per screditarla: ma anche questo è punk, farsi nemici tutti quanti e fregarsene.

Quando la figlia di Maria Teresa d’Austria arrivò nel 1770 a Versailles, la reggia più opulenta che l’Europa avesse mai visto, decise a un certo punto che non le piaceva: avrebbe dunque passato la maggior parte del suo tempo al Petit Trianon che si fece appositamente rimodernare. E siccome s’annoiava (i veri punk non riescono mai a stare fermi), a furia di scrivere lettere compromettenti si fece coinvolgere nel cosiddetto Scandalo della Collana. Una regnante infangata nel gossip più becero secoli prima di Lady D è una cosa decisamente punk.

Volenti o nolenti di punk bisogna dunque parlare, anche perché senza che ne accorgiamo le conseguenze di questa controcultura si sono infiltrate in svariati modi nella nostra percezione di massa. Questo nonostante il punk sia nato nella metà degli anni Settanta proprio come espressione di un disagio profondo contro la cultura mainstream: anarchia, lotta a ogni tipo di autoritarismo ed establishment, rifiuto di ogni ordine costituito, consuetudine, arrendevolezza e norma. Per un periodo tutto quello che i punk fecero fu di inventarsi un contrordine, di sovvertire la musica, l’arte, perfino come si dovessero portare i capelli, i vestiti, gli anelli al naso.

Fu un gioco necessario e rinfrancante, anche perché essere punk poteva voler dire qualsiasi cosa (bastava che non fosse “quella-cosa-là” dei genitori, della Thatcher, di quelli venuti prima): c’erano punk cattolici e punk atei, c’erano punk nazisti e punk socialisti, c’erano punk trascendentali – perfino buddisti – e punk nichilisti, c’erano punk estremi in qualsiasi espressione estetica e punk che pensavano che la lotta vera fosse in magliettina bianca e jeans. Ma fu anche un gioco che durò relativamente poco, finché sopraggiunse lei: la moda.

I chiodi di pelle, i pantaloni strappati, gli anfibi Dr Marteens e le Converse sono divenuti oggetti iconici e per questo tradotti in automatico nell’abbigliamento di massa. L’estetizzazione del movimento punk, in quanto di deflagrante rottura, divenne una marca immediatamente riconoscibile e quindi immediatamente riproducibile. In modo anche lì estremo: subito dopo che, nell’ottobre 1978, Sid Vicious aveva ucciso in un raptus da eroina la compagna Nancy, entrò in circolazione una t-shirt divenuta iconica, con il viso del cantante e le scritte “She’s dead, I’m alive, I’m yours”; erano stampate nello stile patchwork reso celebre da Seditionaries, lo store londinese di Vivienne Westwood e Malcolm McDonald che contribuì a modellare la punk fashion. Se il punk non aveva limiti, la sua moda ne aveva ancora meno.

Non stupisce più di tanto, dunque, pensare che, 35 anni dopo, il Met Gala del 2013 inaugurasse una retrospettiva sul modo in cui quella particolare tendenza 70s abbia modificato il corso della storia della moda. Immaginate la scena: un red carpet organizzato da Vogue America per introdurre una mostra al Metropolitan Museum di New York, con Madonna che sfida i suoi allora 54 anni strizzandosi in un blazer in tartan di Givenchy, una parrucca nera e poco altro, se si escludono calze a rete, applique in metallo e tacchi a spillo fucsia. Il titolo della mostra già di per sé è emblematico di una particolare parabola: Chaos to Couture, dal caos all’alta moda, dalla furia anti-sistemica alla celebrazione fashionista.

Se già nel 1978 i Clash cantavano “ha, you think it’s funny / turning rebellion into money” (White Man In Hammersmith Palais), non ci si può sorprendere di questa progressiva monetizzazione e mediatizzazione della filosofia punk. Si può dire che sia la conseguenza di alcune sue idiosincrasie di fondo. Lo faceva notare in un suo articolo del 1979 Lester Bangs, uno dei giornalisti musicali più irriverenti di sempre che di quegli anni ha conosciuto a fondo ogni artista e ogni droga:

A cosa serve odiare violentemente lo status quo se è tutto un circuito chiuso, se questo rigurgito di rumore serve solo a rimestare la bile che hai dentro finché non ti tocca correre a prendere del Valium?”.

E ancora: “È la moda, dobbiamo beccarcela per forza e, a parte i Clash, mi vengono in mente pochissimi musicisti punk che ci abbiano offerto qualcosa che non fosse appagamento”.

Ma la verità è che, se il punk è ancora vivo e lotta in mezzo a noi, nei suoi mille rivoli massificati, ciò è anche sintomo del successo del suo immaginario così prorompente. Dalla sottocultura di quegli anni sono derivati il cyberpunk di Matrix e Mr. Robot, l’orgoglio fuck-the-system di Greenpeace e WikiLeaks, l’inversione sovversiva fra ciò che è istituzionale e sotterraneo, ciò che è legittimo e ciò che è rivoluzionario, ciò che è underground e ciò che è mainstream. Se oggi possiamo permetterci una cultura media e popolare, di massa, è anche perché è stata rovesciata l’élite. In media stat virtus, lo dicevano già i Latini. Punk pure loro.

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